Titolo:
“Vita di paese”
Autore:
Maria Caterina Basile
Casa
Editrice: Nulla Die
Collana:
Lego Parva Res
Genere:
romanzo di formazione
Pagine:
74
Anno
di pubblicazione: 2017
Prezzo:
10,00 euro
Formato:
libro
ISBN:
9788869151163
Siti
per acquistarlo: http://nulladie.com/catalogo/227-maria-caterina-basile-vita-di-paese-9788869151163.html
Trama
È possibile fare ritorno in una terra-miraggio, rimasta nell'attesa di un futuro che pare non compiersi mai e trovare finalmente se stessi? Damiano Pellegrino, trentacinquenne simbolo di una generazione in viaggio, ci prova, affrontando e vincendo una difficile sfida.
Sinossi:
Vita
di paese racconta la storia di Damiano Pellegrino, trentacinquenne che,
dopo diciassette anni passati a lavorare come barista in Svizzera, ritorna
nella sua terra, il Salento.
Si tratta di una decisione improvvisa,
motivata da una crisi profonda alla quale egli vuol porre fine una volta per
tutte. Stanco di vivere nell’incessante rimorso di non essere stato al fianco
del padre la mattina che quest’ultimo era stato colto da un infarto, Damiano si
mette al volante e torna al suo paese, Miraggio.
Una volta a casa, si rende conto che
l’unico ad essere cambiato è lui; ossessionato dal senso di colpa, aveva scelto
di escludere dalla sua vita familiari e amici. Inoltre, il lavoro che aveva
condotto esclusivamente di notte, non aveva fatto altro che spianargli la
strada all’isolamento. Si era dunque chiuso in se stesso, vedendo nel suo modo
di essere la causa della sciagura che si era abbattuta sulla sua famiglia.
La mattina che il padre era morto, infatti,
Damiano si era rifiutato di aiutarlo nel lavoro in campagna ed aveva preferito
andarsene in giro con gli amici. Del resto, era stato un ragazzo
particolarmente irrequieto, poco ligio al dovere, al contrario dei suoi
fratelli, Salvatore e Cosimo. Le uniche attività che riuscivano a domarlo erano
la lettura e la scrittura, ma non erano bastate a fargli mettere la testa a
posto.
La prima persona che incontra a Miraggio è
proprio il suo professore di italiano alle medie, don Carlo Brigante, il quale
lo aveva sempre spronato a continuare gli studi ed a scrivere. Damiano è sorpreso
nel constatare che l’uomo non solo non ha smesso di credere in lui, ma
addirittura si aspetta ancora che scriva il libro della sua vita.
Damiano sente che una forza misteriosa
vuole portarlo a liberarsi dal rimorso che lo ha condannato alla fuga dalla
terra natia e da se stesso. Pur tentando di continuare a vivere in completo
isolamento, dormendo di giorno e vagando nella notte in preda a sconnessi
soliloqui, pian piano non può fare a meno di cedere all’umanità semplice delle
persone che lo circondano. Inizia a frequentare il bar del paese e si accorge
che le sue pene e i suoi tormenti non sono diversi da quelli di nessuno; quando
affronta la crisi più forte, rivivere il giorno della morte del padre, la mamma
gli resta accanto e lo avvia alla guarigione.
Damiano comincia a guardare se stesso con
occhi nuovi: quelli pieni di pietà e misericordia di chi lo circonda. Nei pochi
mesi passati al paese è travolto da un vortice continuo di riflessioni
sull’esistenza: il cambiamento, tutto interiore, è inevitabile. Seguendo il
consiglio del professor Brigante, ritorna a scrivere e sceglie di occuparsi
della terra del padre, la stessa in cui, diciassette anni prima, aveva avuto
origine il suo rimorso.
Estratto:
[…]
Sono passato davanti alla sala giochi, l’unica del paese: un piccolo gruppo di
adolescenti era fermo a discutere davanti all’entrata. Li ho guardati coi miei
occhi di trentacinquenne. Non sono poi così diverso da loro, mi sono detto. Ho
messo i sogni da parte, ma solo per poco. Sono tornato a prenderli. Ci sono stagioni in cui anche gli alberi
mettono da parte i loro sogni. Ma ve ne sono altre in cui sui loro rami
sbocciano fiori carichi di illusioni. E che colori, che magnifici colori!
Un irrefrenabile desiderio di mettere i
miei pensieri su carta si è impossessato di me. Ho ripreso a camminare.
Un’anziana donna si avviava verso casa: portava annodato al collo un
fazzoletto, come mia nonna. Aveva ragione il professore: sospesi tra passato e
presente, non ci è lecito condividere con i nostri pari la nostalgia per un
mondo antico mai posseduto, eppure tanto agognato. Siamo pochi, siamo quelli
che restano al Sud, tra vecchi e bambini. Tra certezze antiche e una realtà
nuova, luccicante e spesso puzzolente: siamo a metà, spezzati, divisi tra
desiderio di appartenenza e un futuro che ci sfugge dalle mani. Ci si aspetta,
da noi, l’innovazione o magari l’invenzione di nuove tradizioni. Un mondo
nuovo. Ma siamo un corpo frammentato, inerte, che attende di essere ricomposto
con pazienza, amore, pietà.
Una volta a casa, mi sono chiuso in camera
mia. Dovevo fare ordine sulla scrivania, liberarla per mettermi a sedere e
scrivere, facendo ordine anche tra i pensieri. Parole! Le parole delle poesie
sono intime, personali, sono solo per noi stessi; diversa è la prosa, che tende
la mano a lettori sicuri di sé. Il lettore di poesia è un naufrago, i versi
ch’egli ama il fradicio pezzo di legno al quale si aggrappa, forse inutilmente,
nella fioca speranza di restare in vita.
Pupille dilatate dalla solitudine.
Dovevo, in qualche modo, far sì di bastare
nuovamente a me stesso: penna, primo foglio. Qualche parola in fila.
Cancellature grossolane. Secondo foglio. Altre parole. Altre cancellature.
Ah, era inutile cercare di iniziare
qualcosa di nuovo, qualcosa di puro: eccola là, la macchia d’inchiostro, eccoli
là, i due fogli stracciati e accartocciati. E la rabbia, quanta rabbia! di
restare inchiodato a quel tedio, mentre la libertà se ne andava a farsi un giro
col vento facendosi beffe di me. Un inizio, una strada che conducesse in un
luogo sicuro: questo chiedevo. Non sentieri tortuosi e spine che non portano da
nessuna parte. Ecco che le palpebre si richiudevano, gonfie e stanche. Il peso
degli errori e della superbia e l’impotenza – maledetta impotenza! – mi
schiacciavano l’anima, mi addormentavano il cuore. E, intanto, la vita fuori
continuava a scorrere, noncurante dei miei piedi fermi. Le parole le avevo
perdute tutte, tutte. E la povertà aveva un sapore amaro.
Sono rimasto seduto a frugare nel
tiretto dei ricordi, nella speranza di trovarvi fogli di poesie e racconti e potermi
così mettere in piedi sulla sedia, brandendoli da vincitore. Li ho trovati. Ma
è da sconfitto che sono rimasto a sedere e del vinto ho assunto la posa,
lasciando cadere i fogli per terra e coprendomi il volto con le mani,
soffocando i singhiozzi del male che avanzava e che non mi lasciava scelta,
scorrendo inesorabile come un fiume impietoso che tutto travolge e tutto
annienta.
Fare pace col tempo. Fare pace col tempo.
Pazientare.
Ho preso in mano un quaderno a caso. Sulla
copertina campeggiava una scritta in stampatello: “Viva Berardo Viola”. L’ho
aperto. Sotto il titolo “Riflessioni notturne, 07/03/1998”, c’era scritto:
“Dobbiamo stare attenti a non salire troppo in alto sulle nostre fragili scale
sociali: la guerra tra poveri ci farà cadere tutti, tutti. Più alta sarà la nostra meta, più profondo il
burrone di miseria spirituale nel quale cadremo. Perché una sola è la bandiera
a cui noi meridionali dobbiamo prestare giuramento: quella dello Spirito. La
bandiera di una terra senza confini, che ci ricordi ciò che siamo, che ci
rammenti di non provare a schiacciare gli ultimi come se fossimo giganti: siamo
formiche, piccoli laboriosi pacifici insetti, piccoli insetti neri con la
schiena piegata sotto il sole cocente. Le nostre mani non devono far altro che
spezzare il pane in segno di pace, i nostri piedi devono restare ancorati alla
terra: guai se salissero anche un solo gradino! Sarebbe la fine del nostro
piccolo mondo d’incanto”.
Più avanti, datato 01/07/1998, un
appunto scritto dopo una lite con i miei fratelli: “Mai dare per scontato
nemmeno il più semplice scambio di parole: anche nel saluto più banale c’è una
benedizione profonda.
Le parole rassicuranti dell’amato, la madre
di tre figli che stende i panni di prima mattina.
Il compratore d’olio usato passa per le
strade – ‘L’olio forte, chi tiene la murga!’ – e raccoglie
i resti di fritture; in quell’oro vegetale echeggiano le risate, i pianti, gli
schiamazzi, le urla, la rabbia e l’amore delle famiglie meridionali riunite a
tavola.
I passi dell’amato al di là della porta: la
donna sospira e attende.
Attendevo il ritorno della poesia, della
riflessione, della solitudine, del ripiegamento su me stesso che un giorno sarà
eterno. La poesia preannuncia l’Aldilà, l’eterno stato di beatitudine e
benessere al-di-là del mondo visibile.
‘Meloni, pesche, peperoni’: l’ambulante
diffonde la sua voce per il paese. Le donne accorrono dagli usci, comprano
frutta e verdura, si scambiano saluti e confidenze.
Meridione, io ti abbraccio e ti benedico:
perché tu non fai lo stesso con me, perché?”.
Dio, avevo sempre preso tutto così
seriamente! Ma la vita è il riso sguaiato di un bambino, niente di più. È un
attimo, una folgore.
Nel rileggere quegli appunti di
adolescente, d’un tratto si è fatto strada nel mio cuore il perdono; che stessi
iniziando a guadarmi con gli occhi di Don Carlo e a scorgere in me l’innocenza
d’un bambino?
Se solo avessi dato meno peso alle parole,
se solo avessi sentito meno! Ma la
storia, lo ripeteva sempre il professore, non si fa con i “se” e con i “ma”.
Pazienza! Mi sarei contentato del presente e avrei provato ad amarmi di un
amore leggero e lucente. Era necessario prendere una pausa dall’eccessivo
rigore con cui avevo trattato me stesso e concedermi una carezza.
Poesie e pensieri notturni avrebbero
ripreso vita. Poi, chissà. Forse sarebbe venuto il libro che il professor
Brigante aspettava da lungo tempo.
Il quaderno aveva ancora un paio fogli
bianchi. Ho ripreso in mano la penna e mi sono messo a scrivere: “La felicità
sta tutta nelle piccole cose, in questo paesino che benedico.
Il passato, la rabbia hanno un sapore
amaro: è bene che io perdoni me stesso settanta volte sette.
Il mio cuore, imparo a conoscerlo ogni
giorno di più; è fragile, sì, ma pieno di misericordia.
Pietà: a me stesso chiedo pietà. Giudice
supremo dei miei errori, ho espiato le mie colpe.
Stare sulla difensiva, sempre, non mi ha
portato da nessuna parte. Ho creato una corazza fittizia, uno scudo fittizio.
È col passato che devo fare i conti, è al
presente che devo dare un’opportunità, a quel bambino che abita ancora nel mio
corpo di trentacinquenne.
Io credo che ogni cosa accada per una
ragione: le strade che percorriamo per tutta una vita alla fine s’incontrano.
Sarà il Fato o Dio stesso a darci una lezione, chi può saperlo.
I significati che scopriamo vivendo vanno
messi al sicuro, perché la mediocrità, l’avarizia, la brama di materia non
possano intaccarne la bellezza.
La felicità sta nelle piccole cose, in
questo paesino che benedico. E se qualche volta l’ho maledetto e ti ho
maledetta, terra mia, io mi perdono. Settanta volte sette.
Damiano
Pellegrino, Miraggio, 25/07/2015”.
Autrice:
Maria Caterina Basile è nata a Taranto nel
1981. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureata in Lingue e
Letterature Straniere presso l’Università del Salento. È autrice di Timothy Leary. La religione della coscienza
dalla rivoluzione psichedelica ai rave (Alpes Italia, Roma, 2012).
Sue liriche sono apparse sulle antologie Quando ritorna la stagione aprica
(Centro Giovani Casalotti, Artemide Editrice, Roma, 1999), Il Federiciano 2010 (Aletti Editore, Villalba di Guidonia, 2010);
sulla rivista Gradiva, International
Journal of Italian Poetry (Stony Brook, NY, 2011); sul blog Thema (http://thematico.blogspot.it/, 2012);
nei libri Sotto l’Albero delle Mele Vol. 2, Parole in fuga – volume 9,
L’indice delle
esistenze – Le Diversità, Il Federiciano – Libro Indaco, (Aletti Editore, Villalba
di Guidonia, 2013), L’indice delle
esistenze – L’Italia, L’indice delle esistenze – I Ricordi (Aletti Editore, Villalba
di Guidonia, 2014). Nel 2006 ha ricevuto il Diploma Honoris Causa dal “Centro
Divulgazione Arte e Poesia Ignazio Privitera”.
Attualmente vive in provincia di Lecce.
A presto
Luce <3
Grazie per la segnalazione!
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