Buongiorno, oggi vi segnalo un romanzo di Cristiano Pedrini, già pubblicato nel 2016, ma che sta per tornare sul mercato in una nuova veste
«Tu, mio piccolo principe dagli occhi di cielo...
Non smarrirti mai nella futilità di chi non sa
cogliere la bellezza oscura che racchiude
il tuo essere...»
Trama
Jayce Axel Collins, non è un diciottenne come tanti altri. E’ scappato dal suo mondo ricco e ovattato
per rintanarsi a Northumberland, nel nord-est dell’Inghilterra, un luogo d’innegabile bellezza,
dove la sua natura incontrastata appare capace di curare le ferite nel suo cuore. Lui, diffidente e ferito,
cerca la solitudine in quella fuga dalla realtà e invece troverà ad accoglierlo Keith. Agli occhi di Jayce non è la persona che desidera avere attorno, Keith è affabile, sicuro e di se e un incallito rubacuori, e
sembra interessarsi troppo a lui che vorrebbe solo passare qualche giorno senza pensieri.
La sorte di un vecchio albergo abbandonato, a cui i cittadini della contea sono particolarmente legati,
costringerà Jayce a svelare la sua vera identità, complicando il suo soggiorno a Northumberland,
lasciando affiorare segreti immorali che torneranno a far visita a ragazzo.
Riuscirà Keith a sconfiggere i demoni che sono giunti per reclamare il futuro del giovane Jayce?
Potrà trarre in salvo un cuore ferito e perduto nel mondo, che non chiede altro di essere compreso e
amato?
Estratto dal Capitolo II
Jayce si era appena concesso una veloce doccia calda che, come d’incanto, si era
portata via con sé non solo il fango della sua rovinosa quanto imbarazzante caduta, ma
anche la stanchezza di quella prima giornata di libertà. Una giornata che era stata costellata
da fin troppe forti emozioni.
S’incamminò verso il letto, asciugandosi con una salvietta bianca i capelli ancora umidi.
Nonostante fosse a piedi nudi, il pavimento di legno era caldo e gli trasmetteva un’insolita
sensazione di benessere. Non gli era mai capitato di provarla e del resto non si ricordava
neppure di aver mai camminato senza scarpe sui preziosi pavimenti di marmo della sua
casa. Probabilmente il risultato sarebbe stato ben diverso.
Si sedette letto ripensando a quello strano individuo che aveva tentato di portarlo via con
sé. Chi poteva essere?
Non aveva rivelato a nessuno dove voleva andare. Si trattava forse di uno squilibrato del
posto?
“Bah, capitano tutte a me”, si disse guardando l’anello che si era tolto prima di
lanciarsi sotto il getto d’acqua della doccia, lasciandolo sul comodino.
Se lo rimise al dito sfiorandolo con delicatezza. Ogni volta che guardava quella pietra
cerulea, incastonata con precisione nella struttura dell’anello, la sua mente lo riportava
inevitabilmente ai ricordi legati a sua madre e a quel suo ultimo dono.
Qualcuno bussò lievemente alla porta della stanza, distraendolo dai pensieri che
indugiavano sul prezioso monile.
Si rialzò, si tolse l’asciugamano dal capo e, raggiunto l’uscio, aprì la porta.
“Tu? Che ci fai qui?” chiese esterrefatto trovandosi dinnanzi a Keith che lo guardò
attentamente, prima di scoppiare a ridere.
“Oh dio! Ma che hai fatto?” gli disse con ostentata ilarità.
Jayce lo guardò perplesso prima di sbuffare seccato: “Non ho chiamato il servizio in camera,
quindi vedi di andartene!”
Cercò di chiudere la porta ma l’uomo allungò il piede, bloccandola.
“Aspetta, ma hai visto come sei conciato?”
“Insomma, ma che diavolo vuoi dire?” chiese accostandosi alla parete accanto alla
soglia dove era appeso uno specchio.
Aveva coperto la ferita sotto lo zigomo con un cerotto che, oltre a essere di dimensioni
sproporzionate, era stato applicato di traverso.
“Be’, che cosa c’è che non va?” replicò Jayce, consapevole che non poteva dirsi una
medicazione ben fatta.
“Hai almeno disinfettato quel taglio?”
“Ecco, no, non ho nulla per farlo...”
Keith sospirò profondamente, alzando gli occhi al soffitto. “Resta qui. Vado a farmi dare la
cassetta del pronto soccorso dalla signora Cunard.”
“No, aspetta!” esclamò Jayce, seguendolo inutilmente fuori dalla stanza.
Era troppo tardi. L’uomo stava già scendendo le scale, sordo al suo richiamo.
“Non posso crederci... che vuole da me questo tizio?” mormorò il ragazzo mentre
rientrava nella stanza.
Richiuse la porta, appoggiandosi con le spalle.
Lentamente ritornò verso il centro della camera, ma all’improvviso si accorse di indossare
solamente una salvietta legata attorno alla vita. Sbuffò: non poteva di certo restarsene in
quello stato. Con frenesia indossò quindi i boxer puliti che aveva lasciato sulla sedia poco
distante, buttando via il telo umido al suolo. Afferrò il maglione blu e iniziò a infilarselo,
quando sentì la porta riaprirsi.
“Fermo, non entrare!” esclamò dimenandosi. Non impiegò molto a comprendere che
aveva infilato la testa in una delle maniche anziché nell’imboccatura del collo, anche perché
la maglia non si calava e lui era rimasto intrappolato tra la stoffa.
Al buio perse l’equilibrio e sentì prossima un’altra brutta caduta, ma stavolta si sentì
afferrare da qualcosa che lo tenne sospeso a mezz’aria.
Delle mani lo sorressero e lentamente, con delicatezza, lo aiutarono a guidare il capo verso
la giusta apertura del maglione.
Quando Jayce rivide la luce, si trovò davanti al sorriso di Keith.
“Lo sai, eri davvero divertente” gli confessò quello, stropicciandogli di nuovo i capelli
come se fosse un bambino e non un uomo estraneo che gli stava davanti. E nella sua stanza
tra l’altro.
“É tutta colpa tua! Non si entra in camera di qualcuno senza bussare!” s’infervorò,
incrociando le braccia al petto.
“Avanti, vediamo di medicare la tua ferita” disse Keith, facendolo accomodare sul
letto.
“Guarda che non è necessario - fece notare il ragazzo tenendogli il broncio - non sono
di certo in pericolo di vita per un taglietto da poco.”
“Può darsi - ammise l’altro, staccando con attenzione il cerotto - ma questo piccolo
taglio, se non ben curato, potrebbe crearti qualche problema e rovinare questo viso così
adorabile.”
“Risparmiami i tuoi commenti inopportuni.”
Nessun commento:
Posta un commento