giovedì 20 gennaio 2022

Concorso letterario: In mille parole 2022

 


Buongiorno a tutti! Il 24 Ottobre 2019 è inziato un concorso letterario, indirizzato a tutti gli autori che volevano mettersi alla prova e che erano pronti a cogliere ogni occasione per scrivere e farsi leggere. Alex Astrid (che a quanto pare non si ferma neanche se la leghi) del blog "Vuoi conoscere un casino" ha deciso infatti di organizzare un concorso per racconti brevi a tema, al quale possono partecipare autori emergenti e scrittori dilettanti. Simo Simis del blog ilmondodisimis, Alex e Francesca del blog Libri, libretti e libracci sono i giudici, mentre io vi romperò le scatole solo una volta (per vostra fortuna).Se volete saperne di più leggete fino in fondo dove troverete anche il link per sapere come funziona, perché il concorso è ancora in atto e ogni due mesi ci sarà un tema differente.

*-* *-* *-*

Il tema di questo mese:

"L'ultima notte della mia vita"

La classifica:
1. "Vincenzo Di Fazio… " di Adelaide J. Pellitteri
...
2. 
"L'ultima mattina della sua vita" di Alessandro Gnani
...
3. "Il carillon" di Massimiliano Agarico

Il racconto vincitore:

Arrivo con armi e bagagli, qui non mi mancherà nulla, così come niente mancò mai a mio nonno.
Da quassù, il paese sembra sia a un tiro di schioppo, ma è alla giusta distanza. Finirà che mi chiameranno l’eremita. Mio nonno lo chiamavano così.
Lui qui c’è nato e c’è anche morto.
Non volle mai scendere in paese e nemmeno in città, neppure per venire a vedere come era rinata Palermo distrutta dai bombardamenti.
“In questo fortino - mi raccontava mio padre – il nonno ha accolto e sfamato partigiani e sfollati durante la guerra”. Poi concludeva “In paese dovrebbero fargli una statua d’oro”; mentre mia madre lo prendeva in giro dicendo “non si allontanava mai da lì per non lasciare incustodito il tesoro”, e io giù a ridere con lei. Alludeva alla Cascina che non era certo una baita, e che nonno non dotò mai di alcun confort.
Ero stato io a battezzarla “il fortino” negli anni in cui lì ci giocavo agli indiani. E fortino era rimasto il suo nome per sempre.
Sono il nipote di un eroe e, quanto prima, mi sono ripromesso di andare a parlare con il sindaco per provare a sondare il terreno circa la possibilità di far dedicare a mio nonno almeno una strada. Magari il corso principale che porta ancora il nome dei Principi Trupìa. Blasonati di scarsa nobiltà.
Quale motivazione migliore per dedicare quel corso a mio nonno se non l’aiuto dato a tanti compaesani? Che senso ha mantenere il nome di un casato che invece ha imposto per secoli la sua signoria sfruttatrice?
Ho mille progetti e domani arriverà l’architetto con la squadra per far diventare questo tugurio il mio rifugio di montagna. Sono stanco della città, dei suoi vizi, la sua anima è irrecuperabile, voglio allontanarmene definitivamente. Adesso che, grazie a cinque anni di scivolo, sono in pensione posso ritirarmi in questo pezzo di paradiso. Almeno è questo che conto di farlo diventare.
Ringrazio mio padre che ha tenuto in piedi questa baracca con un minimo di decenza, così, accomodati i bagagli comincio la mia perlustrazione.
La possibilità di poter finire i miei giorni dove ha vissuto mio nonno mi inorgoglisce.
Ho intenzione di contattare anche qualche giornalista cui raccontare la storia di questo eroe senza medaglia.
Tra un passo e l’altro avverto dei vuoti sotto il pavimento, cerco di prestarvi attenzione, do qualche colpetto al legno, ascolto il rumore diverso che fanno le assi e ne ho la conferma. Comincio a tastare il pavimento carponi, cerco di capire meglio, quando la pressione più decisa in un punto rivela un’asse libera dall’inchiodatura. Provo a tirarla via, ma si solleva un pannello intero di circa un metro per un metro. Una scaletta porta a un piano interrato del quale non sapevo nulla, del quale mio padre non mi ha mai parlato.
Immagino sia il ricovero dove mio nonno nascondeva i fuggitivi, o dove teneva i viveri per sfamarli.
Recupero una torcia e scendo giù, non è profonda, diedi gradini appena. Intravedo quattro bauli abbastanza grandi, ne sono sorpreso.
Che sia il tesoro del quale ridevamo con mia madre?
Le serrature sono arrugginite e devo tornare su a prendere qualche attrezzo; in casa non mancano pinze e cacciaviti.
Devo smanettare un po’ per riuscire ad aprire il primo, e questo mi dà la conferma che nemmeno mio padre ci ha mai messo mani. Lui è stato qui fino all’estate scorsa poi, di notte un infarto e se n’è andato, da solo, ma di certo felice di potere riabbracciare suo padre.
Risalgo come inseguito da mille demoni, arraffo tutto ciò che avevo a mala pena sistemato per la mia permanenza durante i lavori. Afferro le chiavi della macchina, ingrano la marcia e scappo via, giù verso la città.
Sudo, tremo, provo conati di vomito e fatico a trattenere ciò che ho mangiato stamane, ma anche ieri e l’altro ieri. Vorrei vomitare l’anima, se fosse possibile. Mi fermo, accosto al guardrail, da qui il paese sembra minuscolo, mentre il mio disgusto è smisurato.
Vi avessi trovato cadaveri, dento quei bauli, sarei stato felice; avrei immaginato degne sepolture per i poveri disgraziati morti nonostante l’aiuto di mio nonno. Ma ciò che ho trovato è aberrante, e non ha giustificazione.
Vorrei strapparmi dal volto il sorriso che mi dicono essere identico al suo, vorrei poter cancellare il cognome che ho, e l’idea che mio figlio porti in giro per il mondo il suo stesso nome mi fa ribrezzo.
Li ho aperti tutti e lì per lì sono rimasto abbagliato: candelieri d’argento, anelli di smeraldi, zaffiri, rubini, gioielli d’ogni tipo, vassoi d’argento, quadri, armi…, perfino un ostensorio, forse appartenuto alla vecchia cattedrale tanto stupefacente la cesellatura. I bauli sigillati hanno mantenuto il tesoro intatto. Mi sembrava di essere davanti alla refurtiva che si vede nel film dei pirati.
Il valore: incalcolabile.
Ogni singolo oggetto aveva un cartellino attaccato.
Ho letto e rabbrividito.
Ho creduto di non aver compreso. Ho riletto il primo cartellino, poi il secondo, il terzo… Mi sono accasciato sul pavimento scioccato.
Mentre lo stomaco cominciava già le sue contrazioni e nel petto cresceva l’affanno ho voluto ancora leggere per essere certo, ho preso un candeliere e sul cartellino ho letto: 2 ottobre 1943 notaio Li Manni con la figlia, la piccola Marilena, candeliere d’argento a cinque braccia in cambio di tre giorni di rifugio senza cene. In quello attaccato a un anello, invece c’era scritto: 7 luglio 1943 Principi Gualtiero e Mafalda Trupìa; anello con smeraldo in cambio di due notti di rifugio e una sola cena, due uova e una fetta di pane nero. In un altro ancora: 12 febbraio 1944 Padre Gesualdo, ostensorio della Matrice in cambio di tre fette di pane nero.
Ho percepito la dannazione afferrarmi la gola, se fossi rimasto ancora un minuto sarei morto soffocato, o forse è accaduto davvero perché, nonostante sia riuscito a fuggire, posso affermare senza alcun dubbio che: Vincenzo Di Fazio, il fiero nipote dell’eroe, è morto stanotte.


Bio autrice

Mi chiamo Adelaide e vivo a Palermo dal 15 agosto del 1961, giorno in cui sono nata. Quinta di cinque femmine, in casa non sono mai mancate fantasia prolifica e creatività pratica. Ho avuto la fortuna di giocare tantissimo con le mie sorelle e i bambini del vicinato nel giardino dietro casa. La passione per la scrittura, però, era già nel mio DNA; il mio bisnonno scriveva commedie popolari e poesie, una delle mie sorelle componeva canzoncine per le recite della scuola e mio nipote, agli esami di terza media, ha scritto un compito di italiano lungo tredici pagine senza andare fuori tema. Bene, ho presentato tutta la famiglia e così si è capito che alle radici ci tengo. Ahimè, ho sposato un milanese che si lamenta sempre dell’inefficienza della mia città, ma nonostante ciò, dopo trentatré anni di vita insieme, mi va ancora a genio. Pur avendo conseguito il diploma di figurinista (dopo avere abbandonato il liceo classico), scrivere è sempre stata la mia vera passione; la coltivo da decenni con impegno, dedizione e studio costante. Grazie a ciò, alle pareti di casa ho appeso qualche riconoscimento, l’ultimo l’ho ricevuto al concorso Paolo D’Amato per la mia prima opera letteraria, una raccolta di racconti dal titolo Donne fino a epoca contraria pubblicato da L’Erudita. Tantissimi, inoltre, sono i racconti pubblicati da diverse Case Editrici nelle antologie AA.VV. Frequento con piacere i blog e i forum letterari che trovo stimolanti per la creatività, utili per lo scambio di informazioni e indispensabili per un confronto quotidiano finalizzato a migliorami. Spinta da una passione irrefrenabile per la lettura, non da critico letterario ma da lettrice pura, scrivo recensioni per il blog VCUC. Tra gennaio e febbraio è prevista l’uscita del mio primo romanzo.


Racconto che ho preferito:

“ — Il respiro si perde sempre nel vento eppure, chiudendo gli occhi, il tuo lo riconoscevo con chiarezza, mamma; percepivo quel leggero soffio di aria tiepida, profumata di rose e miele, che per un secondo aveva la meglio sulla brezza gelida del mondo. A volte lo sento tutt'ora, anche se non sei più qui.
— Grazie tesoro.
— È la verità. Adoravo passare il tempo nel nostro piccolo negozio di antiquariato. Lì dentro non vedevo né occhi né mani che mi aggredivano e ho imparato tutti i lavori, fino ad amarli.
— Il negozio era proprio carino, vero?
— Sì, mamma, ma la verità era che adoravo passare del tempo in negozio perchè lì c'eri tu.”
Tommaso si sveglia, stropiccia gli occhi, sbadiglia e stira i muscoli. Fanno male.
Apre come ogni mattina il carillon sopra il comodino, quello regalatogli da mamma, e lo ascolta mentre si lava faccia e denti. Dopo colazione infila in bocca una pillola che le allunga papà e la sputa di nascosto non appena esce di casa per andare a scuola. Lo fa da tempo. Vorrebbe ritornare alla sua ultima notte di vita, quella vera, passata in compagnia di musica, matite colorate e fogli bianchi.
Non gli riesce di parlarne in famiglia, ma alla medicina preferisce tenersi i demoni appiccicati addosso. Eppure questa era una cura valida, per il dottore, per papà e per nonna, venuta a tener loro compagnia. Ma gli effetti... non riusciva più a fare quel che più amava: scrivere. E nemmeno disegnare.
È vero, le decine di mani liquide che colavano ogni mattina da soffitto e pareti erano finalmente svanite; e pure le centinaia di occhi folli appiccicati alle pareti dopo pochi giorni erano scomparsi, non lo fissavano più; sulla tappezzeria beige erano rimasti soltanto molti piccoli aloni sbiaditi. Però erano finiti pure i suoi sogni e le sue mille ispirazioni, ed era sempre prigioniero di vomito, fitte lancinanti e tremori incontrollabili.
La malattia, che aveva imperversato per anni come una tempesta su tutti i malcapitati occupanti della casa, ora non esisteva più, ma ne sentiva una mancanza atroce. Quelle pillole si erano trasformate in un dittatore che gli impediva di vivere; persino di respirare, a volte.
La piccola pastiglia verde vola a nascondersi tra le margherite del piccolo giardino e le mani che stringono i fogli con i disegni non tremano più, finalmente.
Arriva al cancelletto che dà sulla strada: a destra per andare a scuola, a sinistra quella che percorre ogni giorno con la mente per cercare di raggiungere il punto esatto in cui si chiude a imbuto sul filo dellʼorizzonte, quel posto infinito che non riesce mai a raggiungere.
Quando vede arrivare proprio da lì quella macchina nera, Tommaso posa lo zainetto e le va incontro correndo, poi si ferma e resta al centro della striscia di asfalto. La aspetta. Fissa oltre il luccichio del parabrezza che si avvicina veloce e sorride: alla guida ci sono tante mani liquide contratte di felicità, e nellʼabitacolo fluttuano con grazia decine di bulbi oculari che lacrimano di gioia: stanno ritornando da lui.
Lʼauto accelera. Tommaso riprende a corrergli incontro e allarga il sorriso, lasciando intravedere i duoi denti bianchi; socchiude le palpebre come fossero lenzuola, le stesse che gli rimboccava sempre mamma quando era bambino. Ascolta nellʼaria il suono del suo carillon finché questo si richiude, spegnendo la grazia di quella musica con un tonfo leggero. I suoi disegni, adesso, restano sospesi nellʼaria, fluttuando liberi e leggeri come piume

1 commento:

  1. Il tuo preferito è Il carillon di Massimiliano Agarico, complimenti al suo posto in podio ;)

    RispondiElimina