domenica 15 giugno 2025

Recensione "Come l'arancio amaro", Milena Palminteri

 


Autrice: Milena Palminteri
Titolo: Come l'arancio amaro
Prezzo: 19,00  e-book 11,99
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"Carlotta mia, io dell’arancio amaro conosco solo le spine e ormai non mi fanno più male. Ma il profumo del suo fiore bianco è il tuo, è quello della libertà."


Trama
"Carlotta mia, io dell’arancio amaro conosco solo le spine e ormai non mi fanno più male. Ma il profumo del suo fiore bianco è il tuo, è quello della libertà."

A cosa serve essere giovane e piena di progetti, se sei nata nel tempo sbagliato? Tre protagoniste straordinarie fronteggiano la sfida più grande: trovare il senso del proprio essere donne in un mondo che vorrebbe scegliere al posto loro. Nardina, dolce e paziente, che sogna di laurearsi ma finisce intrappolata nel ruolo di moglie. Sabedda, selvatica e fiera, che vorrebbe poter decidere il proprio futuro ma è troppo povera per poterlo fare. Carlotta, orgogliosa e determinata, che vorrebbe diventare avvocato in un mondo dove solo i maschi ritengono di poter esercitare la professione. E un segreto, che affonda nella notte in cui i loro destini si sono uniti per sempre. Tra gli anni Venti e gli anni Sessanta del Novecento, Sabedda, Nardina e Carlotta lottano e amano sullo sfondo di un mondo che cambia, che attraversa il Fascismo e la guerra, che approda alla nuova speranza della ricostruzione. Per ciascuna di loro, la vita ha in serbo prove durissime ma anche la forza di un amore più grande del giudizio degli uomini.

Partendo da una storia vera, Milena Palminteri esordisce con un romanzo maturo e travolgente, con una lingua ricca di sfumature, popolato di personaggi memorabili per la dolente fierezza con cui abbracciano i propri destini.



Recensione

Il tempo in Come l’arancio amaro è duplice. Vi è una cornice, quella di Carlotta che vive nell’Agrigento degli anni Sessanta. Carlotta è fa un lavoro che non avrebbe voluto: è laureata in Giurisprudenza, ma è diventata archivista, ancora ostacolata dal genere in cui è nata. Ed è proprio nel luogo in cui lavora che tutto si scatena. Scopre della “terribile accusa rivolta da sua nonna paterna a sua madre, di non averla partorita ma comprata”. Di qui, il ricordo degli atti notarili, un classico ed efficace espediente narrativo; un ricordo che ci conduce indietro nel tempo, prima della nascita di Carlotta, a Sarraca. Ovvero l’anno 1924. Il secondo tempo. Questo è il palcoscenico delle altre due protagoniste di questa storia Sabbedda e Nardina. Il punto di contatto di queste donne sono i legami famigliari. Quelli di sangue, quelli di affetto, quelli pieni di menzogne.

Attorno, una serie di personaggi che condizionano la loro vita. Da Bastiana preoccupata perché la figlia Nardina, dopo il matrimonio con il ricco Carlo Cangialosi, non riesce a restare incinta. Allora tesse un piano, mettendosi d’accordo con Calogero, campiere che ha fatto fortuna con attività mafiose. Tutto è arricchito dalla presenza dell’arancio, che con “i suoi frutti asperrimi, è l’arbusto più fecondo su cui innestare i dolcissimi sanguinelli”. L’arancio diventa il simbolo della condizione femminile. Cadenza le scene del romanzo. Compare la prima volta all’inizio: un carico di arance tra le braccia, sfugge dalla presa di Bartolo e i frutti prendono a rincorrersi rotolando per il corridoio della corriera. In quel percorso rettilineo, si intravedono alcuni personaggi, che prima o poi ritorneranno nel corso della storia. È una sorta di presentazione. Una alla volta vengono nominati, man mano che la loro attenzione si sposta sui frutti.

“Furono subito tutti pronti a recuperarle […]: ognuno ne aveva tratto profitto e ora l’aria era satura dello spirito degli agrumi. Le donne ne beneficiarono in maggiore misura per via della strada che, arrampicando, aveva ammassato i frutti in fondo alla corriera”.

Pare un palcoscenico, una scena teatrale in cui gli attori passano prima inosservati. Alcune figure-chiave sono lì: non i ruoli principali, ma il peso di questi personaggi si avvertirà con le pagine a venire. La loro disposizione è delineata, forse profetica. Le donne sono sedute dietro, gli uomini quindi avanti. Il cuore del romanzo si è rivelato, mettendo in mostra una società, come quella della prima parte del Novecento. La riverenza di Bartolo nei confronti di Stefano, figlio della famiglia per cui lavora, ci anticipa quello che accadrà. Un tempo remoto che mostra una condizione che spesso ci sembra ancora vicina, fin troppo.

Significativa è la rappresentazione del ruolo femminile all’interno del romanzo. Simbolico è, sicuramente, il riferimento che viene fatto all’opera dei primissimi anni del Novecento, Una donna di Sibilla Aleramo. Insieme al romanzo, poi, un mosaico di figure femminili – i cui ritratti, Nardina e le sue compagne di collegio riescono a recuperare – che sono riuscite ad abbattere per prime le barriere di genere. Da Giuseppina Cinque (prima laureata in medicina a Palermo), a Grazia Muscatello (matematica catanese), e a Emma Strada (prima laureata in ingegneria civile a Torino). Il sentimento che aleggia tra le pagine di Palminteri è quello di comprensione. Una lampadina si accende: una donna non è solo una massaia, o una contadina, o la padrona di una casa lussuosa. Ma cosa può in un mondo ancora troppo maschile? E questo “ancora troppo maschile” in Come l’arancio amaro si rivela in tutte le sue sfaccettature.

Al suo interno, Carlotta, c’è la protagonista del tempo della Agrigento degli anni Sessanta; dell’Italia del Secondo dopoguerra. Lei, l’avvocato non lo può fare. Vive in un mondo in cui si appella alle scelte della magistratura ottocentesca: “l’avvocateria è un ufficio esercitabile solo dai maschi”. Sebbene conosciamo il primato di Lidia Pöet nel 1920. E qui ritorno, e mi resta ancora più impressa, l’immagine delle donne nel fondo della corriera, che nei posti accanto agli uomini ancora non si siedono. Carlotta, in Come l’arancio amaro, rappresenta a mio avviso la donna disillusa, che non crede più in nulla. Diffida degli altri, dei colleghi della famiglia, di quella sensazione di vuoto che la pervade mentre gli altri attorno a lei vivono. Carlotta si rifugia in un’abitudine, nella sicurezza ed evita il rischio, non osando e non lottando, nemmeno per diventare avvocata come lei vorrebbe.

Così la donna fugge da ogni cosa, fugge via anche dalla verità. Si sente impotente, proprio perché donna. Dubita di tutti ed è estremamente convinta che lei di felicità non ne ha portata a nessuno, proprio perché donna. Per tale ragione si domanda se suo padre sia stato contento del suo arrivo. Quello stesso padre che il giorno della sua nascita l’ha lasciata, “scappando” via.

“Che non fosse stata una gran fortuna nascere femmina lo aveva capito presto, quando parlando di suo padre, Carlo Cangialosi, morto in circostanze oscure nel medesimo giorno in cui lei era nata, Carlotta aveva chiesto a sua madre Nardina se lui almeno avesse avuto il tempo di dirsi felice di una fimminiedda primogenita. In un mondo che privilegiava gli uomini, a Carlotta era molesto il sospetto che la sua  identità lo avesse deluso. Sapere che non era stato così l’avrebbe pacificata”.

Nella parte del passato, invece, ci sono Nardina e Sabbedda. Diverse ma speculari; inconsapevolmente legate. Una toglie e prende, è la madre di Carlotta, ma la sua austerità e la sua freddezza non le permettono mai di stabilire un vero rapporto di affetto con la figlia. L’altra dà via, ed è colei che ha generato Carlotta. Non c’è nessun combattimento qui, nessun litigio. Le due non stanno litigando e reclamando entrambe la maternità della propria figlia. E non c’è nessun Re Salomone che propone di dividerla a metà, cosicché ognuna delle parti possa essere ceduta. Nardina non sa chi sia la vera madre di Carlotta, e poco le importa. Piuttosto vuole mantenere saldo il suo matrimonio con Carlo e, non resistendo all’opprimente Bastiana, cede alla messa in scena dell’inganno. La prima recita, la più difficile, fingere una gravidanza.

Sabbedda, d’altro canto, è vittima. Per tante motivazioni. Vittima di una violenza da parte di Stefano Damelio. Offertasi senza volerlo per un’ingenuità che paga, alla fine, lo scotto. Di chi? Di un uomo, che è poi un uomo ricco, che alla fine è un uomo ricco che esercita, all’inizio, un fascino su di lei. Ma Sabbedda, al contrario, è povera. È in una posizione inferiore in tutto e per tutto. Non riesce a superare le insidie del suo tempo, a contrastare il padre – che, veniamo a sapere, era violento con la moglie – e cede anche lei. Come Nardina. Sacrifica se stessa e, subalterna, rinuncia al bambino che cresce dentro di lei, e che con lo scorrere dei mesi impara ad amare. E, povera in canna, la ragazza (giovanissima, eh!) si priva di chi le è più caro e, allo stesso tempo, accetta l’amore dell’ambiguo don Calogero.

“Lo sapeva ed era contenta che il bambino suo se lo sarebbe cresciuto Nardina, ma sempre le tornavano davanti gli alberi di arancio amaro allo sperone e la faccia di Stefano schifiata”.

Come l’arancio amaro sale potente nell’animo di chi lo legge. Richiama non come un canto, ma come un grido chi dal passato chiede aiuto e chi lo fa anche ora, nel presente. Sono le urla delle donne lasciate indietro, che per ultime ricevono la fortuna degli aspri frutti che rotolano verso i presenti. Allo stesso tempo, l’utilizzo del dialetto siciliano non fa che accentuare l’asprezza delle scene, con quei termini dialettali che richiamano dall’animo le angosce e le disgrazie.


La mia valutazione


Alla prossima

Luce <3

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