lunedì 25 aprile 2022

7 blog per 1 autore: Simone Colaiacomo

  Buongiorno lettori e amanti delle serie tv! Come avevo preannunciato, da oggi comincia una nuova rubrica in collaborazione con altri 6 blog, di cui uno è quello di Federica, che gestisce Gliocchidellupo

ma in cosa consiste la rubrica, 7 blog per 1 autore?


Riapre una rubrica tanto amata e dedicata agli autori, da un'idea di Federica del Blog Gli Occhi del Lupo. In precedenza chiamata 4 blog per un autore e ora cresciuta in 7 blog per un autore. Ogni settimana ospiteremo un autore con il suo romanzo ed entreremo meglio in ciò che ha scritto. Ringraziamo tutti coloro che si sono affidati a questa iniziativa.
Blog che vi partecipano:
LUNEDÌ - Tutto sul romanzo - IO AMO I LIBRI E LE SERIE TV
MARTEDÌ - Ambientazione - IN COMPAGNIA DI UNA PENNA
MERCOLEDÌ - Cast Dream - TRE GATTE TRA I LIBRI
GIOVEDÌ - Un messaggio da scoprire - ANIMA DI CARTA
VENERDÌ - Un'immagine che racconta - LIBERA_MENTE
SABATO - Intervista all'autore - READING IS TRUE LOVE
DOMENICA - Intervista al personaggio - GLI OCCHI DEL LUPO

Tutto sul romanzo
COVER + TRAMA + ESTRATTI
Raccontaci come hai scelto la cover, chi l’ha realizzata e qualche info in più
rispetto alla trama scelta (Allega un estratto card e la cover del romanzo)


Trama:

L’albo Gotico italiano esce trimestralmente ed è un format unico nel suo genere, poiché racchiude un
graphic novel e un racconto breve, entrambi di genere nero.
“Gotico italiano Vol.5 – Marroca” ci conduce in una Toscana carica di credenze popolari, dove le
streghe e gli eretici la fanno da padroni. Nel graphic novel che dà il titolo al volume, scritto e
sceneggiato da Simone Colaiacomo e illustrato da Kalico, è questa figura particolare della Marroca la
vera protagonista, la cui leggenda è legata alle acque di un lago della Val di Chiana e a qualunque gorgo
che genera i suoi terrificanti mulinelli. C’è un’altra protagonista, però, ed è una ragazzina di nome
Esmeralda che dovrà cercare la sua amica Vanda, scomparsa nei pressi del lago, e gli abitanti del borgo
Abbadia di Màlia (paese inventato ma che si ispira ad alcuni splendidi borghi della Val di Chiana)
attribuiranno l’evento drammatico all’azione di questa figura del folklore locale, in parte strega, in parte
mostro acquatico.
Nel racconto nero d’impronta gotica intitolato “La settima anima” sarà invece una terra maledetta che
sostiene un’abazia dove eresiarchi e streghe vi si nascondono, a tenere saldo il legame tra il male e il
bene, che non può essere tagliato in alcun modo. Qui la giovane Aurore, di origini francesi, si ritroverà
col padre, un mercante, a doversi trasferire ad Abbadia di Màlia e a ricostruire la loro vita per
sopravvivere, ma intrecci sentimentali e blasfemie stregonesche si manifesteranno in questo gotico
contemporaneo dalle sfumature classiche.
Tema sociale di questo numero è la dispersione idrica dell’acqua potabile e il suo inquinamento.

ESTRATTO racconto “La settima anima”:
Il caldo era soffocante, al punto che il sudore si appiccicava alla pelle come una coltre stagnante.
Non tirava un filo di vento, tanto che avevano dovuto lasciare le finestre aperte, nella speranza che
anche solo un minimo accenno da ponente potesse allietare quella incauta notte estiva del 23 giugno
1771.
Abbadia di Màlia era un piccolo paese dimenticato dai più, che in un tempo ormai lontano aveva
indossato il nome in Abbadia di Montevenere, dove sorgeva nel medioevo un’abazia cistercense che
ospitava un Ordine dei Frati Predicatori che però, si diceva nei villaggi limitrofi, celasse, agli occhi del
puritano mondo cristiano, segreti immondi e i confratelli nascondessero alcuni eresiarchi catari che
l’Ordine tanto aveva combattuto nei secoli precedenti.
All’epoca, i contadini delle terre circostanti l’abazia erano certi del fatto che i frati, mentre alla luce
del sole recitavano il loro motto laudare, benedicere, praedicare, nella penombra di quelle antiche mura
ormai marce professassero quegli stessi riti blasfemi che avrebbero dovuto epurare, ma che, per qualche
inconcepibile quanto innaturale motivo, insistevano col custodire, pur negandone l’esistenza.
Infatti, quando giravano per i paesi della Val di Chiana, erano soliti essere socievoli e benevoli, ma i
villici, per timore che gli lanciassero qualche maledizione, ricambiavano le cortesie e ascoltavano quelle
che consideravano le loro false benedizioni. Una volta liberatisi dei religiosi, in tutta fretta erano pronti
a farsi tre volte il segno della croce e correre dalla vecchia Santuzza, originaria di Episcopia, un paesino
dell’entroterra lucano, che gli avrebbe levato il malocchio, recitando qualche scongiuro tipo “Nostru
Signuri i Roma vinia, ‘na palma d’ulivu n’te mani tinia supra l’altari a benericiva, scippava l’occhi a cu mali faciva: cu
tri pani e cu tri pisci Nostru Signuri mi duna abbundanza”, accompagnato da un rituale pagano che prevedeva
il mettere in una vecchia tegola di cotto, che stava a simboleggiare il guanciale usato da Gesù, del
rosmarino, foglie d’arancio e di ulivo benedetto la domenica delle Palme, ad ardere su dei carboncini ed
a suffumigare.
Il nome del borgo fu cambiato nell’anno del Signore 1357, dopo un lungo periodo durante il quale la
seconda ondata della Peste Nera imperversò in Europa. Nonostante i focolai fossero quasi del tutto

scomparsi, accadde che solo ad Abbadia di Montevenere gli abitanti furono, dal primo all’ultimo, condotti a
morte virulenta in un’unica notte.
A salvarsi furono soltanto sette frati dell’Ordine che si rintanarono nelle sale sotto la guglia più alta
dell’abazia per quaranta giorni e quaranta notti, pregando qualche loro arcana divinità.
Fatto sta che, da allora, il paese ormai disabitato fu ribattezzato Abbadia di Màlia, a causa di una
diceria, neanche troppo inventata, che quella terra custodisse l’essenza stessa del male, con il suo marcio
cuore pulsante incastonato nello stesso edificio religioso, che aveva permesso ai sette di salvarsi, forse
in cambio della propria anima.
Dei frati però non si seppe più nulla. C’è chi affermò di averli visti vagare alcuni mesi più tardi per le vie di
Chiusi, chi a Chianciano o a Montepulciano o persino a Pienza. Fatto sta che l’abazia rimase incustodita e
nessuno ebbe pertanto il coraggio di entrarvi per controllare.
Stessa sorte toccò alle case che circondavano l’ex sacro edificio, mura abbandonate alle intemperie e agli
inverni rigidi delle colline toscane, dove gli unici custodi furono per decenni gli scheletri degli abitanti morti di
peste, lasciati lì a decomporsi e a nutrire la Madre Terra, che in parte stentava anch’essa d’innanzi all’idea
malsana e ributtante di nutrirsene. Rimasero così per diversi secoli, ma si sa, il tempo cancella ogni traccia di
memoria e dalla putrefazione della carne nascono nuove forme di vita.
Pian piano, a distanza di un paio di secoli, nelle terre circostanti l’abazia, ma sempre mantenendosi a
debita distanza, iniziarono a sorgere nuove abitazioni che, una volta formata una comunità numericamente
significativa, decisero di tenere, come denominazione, quella di Abbadia di Malìa, unico evidente riferimento
prossimo legato soprattutto all’edificio dell’abazia che, comunque, caratterizzava quelle colline.
Fu nel 1743 che una famiglia proveniente da Roma si stabilì in quelle terre abbandonate vicino al vecchio
edificio sacro, dalla Chiesa sconsacrato. Dai materiali ormai ridotti a ruderi delle antiche abitazioni,
recuperarono pietre e dagli alberi dei boschi che ormai avevano preso il sopravvento sulle vecchie costruzioni,
realizzarono travi e risollevarono così un paio di edifici, semplici ma funzionali. Erano tutte donne: tre vecchie
d’età indefinita che si pensò fossero sorelle, una donna sulla quarantina e tre bambine tra i quattro e i dodici
anni, almeno in apparenza.
Non ci volle molto affinché i popolani degli abitati vicini le giudicassero come streghe, ma nessuno
ebbe il coraggio di avvicinarsi a loro, vista la leggenda malevola che aleggiava su quelle terre considerate
sconsacrate. Alcuni sostennero che avessero usato la magia nera per sollevare le pesanti pietre e ricostruire
le mura in così poco tempo, altri che si fossero servite dei figli del demonio che nella notte avevano
posizionato e attaccato, con qualche misterioso materiale saldante, mattoni, pietre e tegole, altri che il
diavolo in persona avesse dato loro una dimora nel tempio del male.
C’era persino chi asserisse maldicenze sul fatto che fossero solo donne, e che la motivazione dovesse legarsi
alla certezza che avessero barattato le anime e le carni dei loro uomini in cambio dell’aiuto del maligno.
A un anno esatto dal loro arrivo, un viandante proveniente dal nord si fermò in una notte invernale in
cerca di un riparo. Non conoscendo le storie di quelle zone, era completamente ignaro di dove fosse
capitato, e per sfuggire alla neve, chiese ospitalità alle donne di quella casa.
Fu accolto con gentilezza e fu sfamato. Un brodo delizioso e nutriente, poi qualche parola di cortesia e in
fine un giaciglio caldo in cui riposare e riprendersi dal freddo.
La mattina seguente si risvegliò senza arti e senza lingua, ogni moncherino cauterizzato, disteso su
una tavola di pietra. Le donne adulte terminarono poi l’operazione di scarnificazione e infine, quel che
ne era rimasto fu trascinato tra i ruderi di un edificio adiacente alla loro abitazione, ancora in piedi per
metà e lo lasciarono lì, al gelo, assurdamente vivo, rinchiuso in un pentacolo di pietre, come tributo per
gli spiriti oscuri di un bosco infetto.
Quel che ne rimaneva fu divorato dai lupi affamati e poi le bambine andarono a recuperare le ossa,
con le quali le laide donne vi prepararono del buon sapone, sciogliendole nella soda caustica fatta con
sale e acqua e poi aromatizzato con foglie di alloro e rosmarino. Così lo avrebbero venduto al mercato
di Chianciano allo sciogliersi della neve e avrebbero avuto una riserva di carne per i mesi a seguire.
Perché si sa, del corpo di un uomo non si butta niente.










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